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Laurea, 3 italiani su 4 non rinunciano al “pezzo di carta”

23 Aprile 2012 - di Claudia Montanari

ROMA – Abolire il valore legale del titolo di laurea? Tre italiani su quattro non vogliono nemmeno sentirne parlare, tanto meno rinunciare al “pezzo di carta”. Le iscrizioni alle università telematiche stanno crescendo a ritmi record: attualmente sono oltre 42 mila gli aspiranti laureandi iscritti a corsi online, una crescita del 40% in un solo anno. Un vero boom, nonostante manchi una vera regolamentazione sui requisiti di accreditamento e sui controlli. Insomma, incrociando le due tendenze, vien da dire che la laurea non perde il suo appeal, a fronte della condizione disastrata degli atenei e soprattutto questa benedetta laurea la si vuole ad ogni costo, senza guardar troppo per il sottile su dove, come e quando. Meglio se ” indolore” e veloce, che poi sia targata Bocconi o Milano Unitel l’importante è esibirla in bella mostra dentro una cornice.

Il sondaggio sul valore legale della laurea, se debba cioè valere come condizione si ne qua non per esercitare le professioni, era stato promosso dal Ministero dell’Istruzione e subito contestato dai sindacati che temevano una risposta manipolata. Preoccupazione che si è dimostrata infondata, visto che su 20 mila risposte completate (su 32 mila registrazioni su www.istruzione.it) ben 15 mila, il 75%  si sono espressi a favore del riconoscimento del valore legale della laurea. Di più, oltre la metà degli intervistati ritiene il pezzo di carta indispensabile per lavorare nel pubblico impiego.

L’iniziativa del ministero dell’Istruzione serviva a monitorare le posizioni intellettuali dei cittadini rispetto a una questione che rischiava di rimaner confinata a un dibattito puramente accademico. Di qua i conservatori che non intendono mettere in discussione il titolo di studio quale unica garanzia per continuare gli studi stessi, per essere ammessi agli esami di Stato, per esercitare una professione e essere iscritti a un Albo. I riformatori, partendo da un principio libertario e utilitaristico, negano allo Stato il ruolo di unico certificatore di competenze utili alle professioni, rivendicando il valore della pratica e dell’esperienza individuale. un’idea non nuova che già Luigi Einaudi espresse nel libro “Sul monopolio culturale della scuola di stato”. Il liberale Einaudi giudicava l’attribuzione del valore legale al titolo di studio una maniera per uniformare, di fatto, gli insegnamenti in tutte le scuole ai programmi decisi dallo Stato, pregiudicando alla radice ogni enunciazione di libertà di insegnamento. Con buona pace di ogni discorso sul merito, senza contare che un 110 e lode preso in un ateneo del sud non è detto che valga un 110 nordico.

Hanno vinto i conservatori i quali, ironizza l’ex ministro Tullio De Mauro, amano il pezzo di carta fino al punto di non voler staccare la spina alle università,  ormai dei malati terminali: da qui la proliferazione di falsi diplomi e vari attestati di studi. Al Governo l’ipotesi di circoscrivere il valore legale del titolo di studio aveva preso forma durante mentre si discuteva di liberalizzazioni. Tra i vari lacci e lacciuoli da spezzare per favorire una crescita più dinamica anche il pezzo di carta certificato dallo Stato stava per essere sacrificato. Gli italiani non la pensano così, la discussione era un po’ troppo avanti rispetto a chi sul pezzo di carta conserva una fiducia incrollabile.

Stesso atteggiamento guida chi si iscrive a corsi di studio a distanza. Un boom soprattutto tra chi “non ha più l’età”: dai 39 mila iscritti del 2010 si è passati ai 42  mila del 2012. La tendenza si spiega anche con il numero crescente di accordi di questi atenei virtuali con le imprese per favorire la formazione dei dipendenti. Un esempio per tutti: la convenzione con Telecom e la Scuola superiore della Pubblica Amministrazione ha consentito a Uninettuno di raddoppiare i propri iscritti dai 3.365 dell’anno accademico 2009/10 ai 6.719 del 2010/11. Diciamo che se parliamo di qualità e non unicamente di erogatori automatici di pezzi di carta, c’è ancora molta strada da fare. Una facoltà non vale l’altra, e online gli standard medi sono ancora parecchio bassi: e-Campus, evoluzione del Cepu, per le sue 5 facoltà poteva contare nel 2011 su 4 professori ordinari a tempo deterrminato e 32 ricercatori a tempo indeterminato.

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