violenza sulle donne

Violenza sulle donne: le cronache non dicono tutto

18 Luglio 2012 - di marina_cavallo

MILANO – Il tema della violenza sulle donne è purtroppo quotidianamente presente sui media nazionali essendo un fenomeno che non accenna a diminuire, anzi ogni giorno se ne registrano sempre più casi e molti di questi arrivano all’omicidio. Ma cosa stanno facendo i legislatori per cercare di dare un freno almeno “legale” a tutto ciò? Riportiamo un articolo uscito oggi su Arcipelago Milano che, partendo dalla notizia dell’approvazione in Lombardia della legge contro la violenza sulle donne, fa un’analisi della grave e discriminata “situazione femminile” nel nostro Paese a partire da quella esistente nelle Istituzioni, in primis nella “avanzata” regione Lombardia:

Con l’approvazione, lo scorso 26 giugno, della legge contro la violenza sulle donne, la regione Lombardia va finalmente a colmare un vuoto legislativo e culturale che perdura da qualche anno, dopo che tutte le regioni, tranne la Basilicata, hanno approvato una o più leggi in materia. Una legge assolutamente indispensabile alla luce del bollettino di guerra che ogni giorno riporta di donne uccise per mano di uomini che, per senso di possesso, gelosia, vendetta, incapacità a reggere il ruolo e la raggiunta liberta delle donne, infieriscono sul loro corpo e finiscono per togliere loro la vita.
Anche nella Lombardia “dell’eccellenza”, come nel resto del Paese, almeno una donna su cinque è vittima di violenza, ma meno del 10% di loro trova il coraggio di denunciare. In nove casi su dieci, la violenza si consuma all’interno dei rapporti di coppia o delle mura domestiche, solo un caso su dieci è opera di sconosciuti e la violenza si distribuisce equamente fra famiglie italiane e straniere, abbienti e meno abbienti.
A farsi carico del soccorso, della cura e della tutela psicologica e legale di queste donne e dei loro bambini hanno provveduto per anni le tante volontarie che operano nei centri antiviolenza, nelle case delle donne maltrattate, ma ora, a causa dei continui tagli al sistema sociale e agli Enti Locali, i centri rischiano di chiudere. Per questo è necessario che il milione di euro stanziato dalla nuova legge per il 2012 venga immediatamente reso disponibile e finalizzato, oltre che agli interventi antiviolenza, a diffondere una cultura del rispetto delle differenze fin dalla scuola primaria.
La legge approvata ha dovuto superare molti ostacoli, anche di carattere ideologico (volti a trasmettere della famiglia l’immagine stereotipata di luogo sicuro e a collocare la tragedia della violenza fuori dai rapporti famigliari) e non avrebbe visto la luce senza la determinazione delle tante donne che, dentro e fuori dalle istituzioni, hanno condotto una battaglia di civiltà per portare la Lombardia un passo dentro quell’Europa dalla quale dipende il nostro cammino comune.
Proprio pochi giorni fa, durante la ventesima sessione del Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, Rachida Manjoo, la giurista sudafricana incaricata di fare un rapporto sulla situazione italiana relativamente alla questione della violenza contro le donne, ha definito il nostro “un Paese decisamente troppo malato di patriarcato, dove la violenza domestica non viene sempre percepita come un crimine, tanto che persiste la percezione che le risposte dello stato non siano appropriate e sufficienti a proteggere le donne sopravvissute alla violenza nelle relazioni d’intimità” attribuendo alle nostre stesse istituzioni una precisa responsabilità, non solo nella scarsa efficacia della lotta per la tutela dei diritti fondamentali e della libertà delle donne, ma addirittura nel costituire da freno alla crescita e allo sviluppo del Paese.

A tale proposito, non dimentichiamoci che la composizione della Giunta della regione considerata la più avanzata del Paese è stata dichiarata più volte illegittima dal Consiglio di Stato, in quanto con tre sole donne su sedici assessori vìola lo stesso Statuto che il Presidente e la sua assemblea si sono dati e che indica il principio della Democrazia Paritaria come obiettivo primario da realizzare.
Ma quello relativo alla sottorappresentanza politica e istituzionale delle donne, sebbene sia il più vistoso, non è il solo dato in controtendenza rispetto al quadro internazionale. Non ci sono donne ai vertici della Magistratura, eppure le donne rappresentano il 40% dei magistrati. Non ci sono donne rettore, direttori di quotidiani, direttori di TG. Persino nel mondo della scuola, dove più dell’80% della forza lavoro è costituita da donne, queste possono al massimo accedere al ruolo di preside (dove ce la si gioca sul merito), ma laddove scatta la nomina, come nel caso dei provveditori, neppure il migliore dei segugi riuscirà a scovare una donna. I consigli di amministrazione sono per il 93% composti da uomini e anche nelle aziende private i dirigenti donna sono meno del 15% escludendo ovviamente gli incarichi manageriali al top dai quali le donne sono completamente assenti.
Per quanto riguarda il rispetto dei diritti e l’affermazione della libertà delle donne, nelle graduatorie internazionali di qualsiasi tipo, occupiamo stabilmente gli ultimi posti di ogni classifica, superati da quasi tutti i paesi del terzo mondo, tanto da meritarci periodicamente il richiamo delle istituzioni europee e internazionali. Non tanto a causa dell’arretratezza degli strumenti normativi, quanto per la caparbietà con la quale si finisce per ignorarli, o peggio aggirarli.
Il femminicidio, la violenza sono il fenomeno più vistoso di una cultura di cui è intriso il nostro Paese, tanto che ciò che in tutto il mondo fa scandalo, da noi non riesce neppure a stupire. Segno evidente di un ritardo del nostro Paese dovuto all’esclusione delle donne nella costruzione delle decisioni, delle istituzioni, della politica, in definitiva, dello spazio pubblico definito e regolato su pensieri e parametri maschili. Una condizione di arretratezza che, a mio parere, non consente più molti spazi di manovra. La crisi dell’economia e della politica ci pone davanti a un crinale: destrutturare e ricostruire uno spazio pubblico condiviso quale punto d’avvio per la democratizzazione e la crescita o limitarsi a occupare l’angolo privato di una narrazione tutta maschile.

di Piera Landoni