Leo è down e la madre non lo vuole. Papà lancia raccolta fondi per farlo crescere04

Figlio down, madre non lo vuole. Il papà lo salva così…

10 Febbraio 2015 - di lbriotti

ROMA – Figlio down, madre non lo vuole. Il papà lo salva così… Leo è un bimbo nato lo scorso 21 gennaio in Armenia con la sindrome di down. Il piccolo, dopo la sua nascita è stato abbandonato dalla mamma. Ruzan Badalyan, questo il nome della donna, subito dopo la nascita avrebbe posto l’aut-aut al marito (“o me o tuo figlio”). Ruzan è stata subito subissata di insulti e  parole di sdegno da tutto il mondo e così ha deciso di passare al contrattacco rilasciando una lunga dichiarazione in cui racconta la sua verità e accusa il padre del piccolo di aver distorto la realtà. Il padre di chiama Samuel Forrest ed è originario della Nuova Zelanda. L’uomo ha organizzato una raccolta fondi dal nome “Portiamo a casa Leo” per poter permettere al piccolo di andare a curarsi in Nuova Zelanda. L’uomo, in poco tempo ha raccolto 450mila dollari.

Le vicende di questa coppia hanno fatto il giro del mondo. Come racconta Federica Macagnone sul  Messaggero:

Samuel Forrest aveva raccontato sui social network che la moglie voleva divorziare perché lui voleva tenere il bambino mentre lei non era d’accordo in quanto in Armenia un figlio con la sindrome di down è portatore di vergogna per l’intera famiglia. A quel punto il padre messo alle strette non ha avuto dubbi: ha lanciato sul web una campagna per la raccolta di fondi dal nome “Portiamo a casa Leo”, visto che lui non aveva i soldi necessari per il viaggio e le eventuali cure del bambino. Una campagna che finora ha fruttato oltre 450mila dollari. Ruzan, al contrario, nel manifestare il suo amore per il bambino, sostiene ora che i due erano d’accordo che il figlio avrebbe avuto una vita migliore se fosse stato portato in Nuova Zelanda, il Paese di suo padre. «La prima cosa che mi è venuta in mente dopo la diagnosi – dice Ruzan – è stata che non volevo che il mio bambino vivesse in un Paese come il mio in cui certi stereotipi condizionano la vita delle persone con la sindrome di Down e in cui non tutti hanno le stesse opportunità. Voglio che sia integrato e ben accolto nella società in cui vive, mentre nel mio Paese bisognerà attendere anni per arrivare a quel tipo di integrazione»

In Armenia infatti, secondo quanto raccontano diversi siti, partorire e prendersi cura di un bambino disabile significa gettare del disonore sull’intera famiglia.

«Ho visto gli sguardi sfuggenti dei medici – continua Ruzan – i volti dei miei parenti bagnati dalle lacrime, ho ricevuto telefonate di “condoglianze” e ho capito che solo andando in un Paese come la Nuova Zelanda mio figlio avrebbe potuto trovare una vita dignitosa». Ruzan ha anche parlato del suo amore per il figlio e l’angoscia provata quando le hanno detto che aveva la sindrome di Down. «Il 21 gennaio è stato il giorno più felice della mia vita: avevo finalmente dato alla luce il figlio che avevo tanto atteso – ha detto – E’ nato alle 6.30 del mattino e mi ricordo le facce allarmate intorno a me e gli sguardi preoccupati dei medici. Mi sono svegliata ore dopo l’anestesia. La prima cosa che ho chiesto è stata dove fosse il bambino. Mi ricordo le facce tristi dei miei parenti e dei medici e quella diagnosi che suonava come un verdetto: “Il bambino è nato con la sindrome di Down”. Nessuno potrà mai immaginare i miei sentimenti in quel momento. Mi ero appena ripresa dallo shock, quando un medico si è avvicinato e mi ha chiesto di decidere se volevo tenere Leo con me oppure no. Ho dovuto prendere la decisione più crudele della mia vita in poche ore. Ma nel momento più difficile della mia vita, quando mio marito avrebbe dovuto essere accanto a me per aiutarmi a prendere la decisione giusta, non ho avuto alcuno aiuto da lui. Se n’è andato dall’ospedale e poche ore dopo mi ha comunicato che stava prendendo il bambino, che sarebbe partito di lì a poco per la Nuova Zelanda e che io non dovevo fare nulla». «Senza darmi alcuna opzione – continua Ruzan – e senza tentare di trovare una soluzione insieme a me, ha cominciato a far a circolare la sua versione della storia su tutte le piattaforme possibili, senza nemmeno cercare di darmi la possibilità di parlare e accusandomi di avergli dato l’ultimatum “o me o il bambino”, che è assolutamente falso. Ho cercato più volte di comunicare con lui, ma non ha mai neanche provato ad ascoltarmi cercando una soluzione comune. L’unica risposta erano le sue accuse. Samuel non mi ha mai proposto di raggiungerlo e di portare insieme il bambino nel suo Paese. Né mi ha detto nulla il giorno che ho chiesto il divorzio». Molte persone, sconvolte dalla storia di Samuel, hanno contattato Ruzan sui social media esprimendo disgusto. Uno ha scritto: “Non riesco a credere che qualcuno abbia fatto qualcosa di così terribile a un figlio appena nato e a un marito meraviglioso. Sono assolutamente nauseato”.

Un altro ha detto: “Invece di essere sua madre e amare Leo hai deciso di darlo via. Tu sei malata.” Nel frattempo, le donazioni nella pagina di raccolta fondi per il padre e il suo bambino continuano ad aumentare e per ora sono arrivate a 457.000 dollari. Il padre ha in programma di utilizzare il denaro per tornare ad Auckland, sua città natale, dove lo attende il sostegno della sua famiglia. E sono tanti i genitori di bambini con sindrome di Down che si sono profusi in elogi per lui. Samuel ha twittato ieri: “Grazie a tutti , siamo storditi dall’incredibile sostegno e amore che avete mostrato”. Un amico che gestisce la pagina della raccolta fondi ha scritto: «E ‘un ragazzo fortunato ad avere il sostegno di migliaia di amici come te in tutto il mondo. Alcuni dei fondi supplementari che abbiamo raccolto saranno utilizzati per garantire migliori condizioni di vita in Auckland, e per dare le migliori opportunità a Leo e fargli avere una buona casa e una buona scuola. Leo avrà tutto questo e altro ancora, grazie a te». Il resto del denaro sarà utilizzato per finanziare servizi e programmi in Armenia per sostenere i genitori di bambini disabili e per aiutare coloro che sono stati abbandonati a causa del loro handicap.