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Una perfetta felicità (James Salter): spleen di una famiglia borghese americana

NEW YORK – Viri e Nedra, marito e moglie, hanno tutto per essere felici. Lui è un architetto colto e un po’ indolente, e un formidabile inventore di storie per bambini. Lei è una donna affascinante, un po’ spendacciona, ma con un sorriso radioso. La loro unione sembra perfetta, di quelle che non conoscono né crisi, né liti. Hanno due figlie perfette, amici perfetti, la casa perfetta: un’elegante e luminosa residenza vittoriana sulle rive del fiume Hudson. Eppure sotto quell’apparente mondo dorato e borghese corrono, insidiose e silenti, profondissime crepe che manderanno in frantumi la loro vita (perfetta).

Una perfetta felicità di James Salter parla di questo: la decadente apparenza di una famiglia borghese americana che dopo aver raggiunto una tranquilla, inerme e placida felicità incontra il male di vivere, per dirla con Montale. O lo spleen baudelariano, la noia esistenziale (“Quando, come un coperchio, il cielo pesa greve. Schiaccia l’anima che geme nel suo eterno tedio”). Il titolo originale Light Years (Anni Luminosi) gli rende forse più giustizia. Perché alla fine “l’unica cosa che conta nella vita sono i ricordi”. La citazione è di Jean Renoir evocato dallo stesso Salter. “Anche l’amore e il sesso alla fine diventano memoria”, confessa l’autore intervistato da Antonello Guerrera per R2, l’inserto di approfondimento del quotidiano la Repubblica.

Una perfetta felicità è soprattutto un romanzo malinconico: il passato conta più del presente e di un ipotetico, rigenerante futuro; i ricordi valgono più dei desideri. “E la passione – sottolinea ancora Salter – è un demone che non vuole invecchiare”. Una sorta di Revolutionary Road dei giorni nostri: non a caso Salter è stato spesso paragonato a Richard Yates, del quale è stato coetaneo sebbene il primo abbia raggiunto il successo molto dopo, solo in vecchiaia. Anche stilisticamente i due sono accomunati dall’ossessiva ricerca della “parola adatta” e da un continuo processo di revisione del testo, ereditato da Flaubert.

Ma chi è James Salter, scrittore pressoché sconosciuto in Italia, ma molto apprezzato negli Usa, soprattutto dai suoi colleghi: Julian Barnes, Jon Banville e Richard Ford per citarne alcuni. Quest’anno Salter si appresta a compiere 90 anni e il suo capolavoro Tutto quel che è la vita lo ha pubblicato solo nel 2013 dopo circa un ventennio di silenzio. Prima ancora, per oltre dieci anni, ha prestato servizio come pilota nell’Areonautica militare americana, che ha lasciato dopo la pubblicazione del suo primo romanzo, The Hunters (1956). 

Il suo principale oggetto di indagine sono i sentimenti e la loro natura labirintica e imponderabile. La perfetta felicità, pubblicato negli Usa nel lontano 1975, solo recentemente è approdato in Italia, edito da Guanda. Dal microcosmo accogliente e rassicurante delle prime pagine, fatto di cene raffinate, bei libri, buona musica e giornate trascorse a pattinare sul fiume ghiacciato o a giocare col cucciolo festoso dinanzi al camino, Viri e Nedra scoprono tutta la fragilità e l’apparenza del loro esistere. Non reggono l’urto degli anni, della noia, delle ambizioni frustrate e finiscono col cedere a quell’insana tentazione, tutta borghese, di distruggere la loro perfezione. Anche perché il “male di vivere” è altra cosa dal “problema di vivere”, ovvero dalla sussistenza. A volerla dir tutta, è a suo modo un lusso.

In questo stralcio dell’intervista ad Antonello Guerrera, Salter spiega il dramma esistenziale che sottende questo e altri suoi lavori:

“Il problema è che all’inizio di un rapporto interpersonale nessuno può permettersi di immaginare che la passione bruci e si esaurisca così in fretta. Poi, però, vengono la famiglia, i bambini, i fardelli dell’esistenza, che impongono una condivisione di quest’ultima. È vero, tutto può risultare successivamente problematico. Ma il sogno della passione, e il suo demone, non vanno via. Anche perché, costituiscono il sogno della vita stessa“.
E la famiglia borghese americana, di cui ha scritto tanto, che fine ha fatto?
Le famiglie borghesi, americane e non, sono sempre le stesse. Anche se negli anni sono cambiati i costumi sociali e sessuali, permane un’ampia classe media che insegue e ottiene una vita confortevole. Poi certo, c’è chi considera questo stile di vita eccessivamente conservatore o noioso. Flaubert, per esempio, odiava i borghesi e la loro ignoranza. Ma oggi negli Stati Uniti sono tutti borghesi. A parte gli indigenti e i super-ricchi“.
A proposito, che idea si è fatto della sua America? Cosa resterà dell’era Obama, giunta al capolinea?
“L’unica cosa plausibile è che vincerà un altro democratico. Le idee della destra sono troppo stantie”.
Daniela Lauria

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