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Bambini più a rischio obesità se la mamma mangia cibo spazzatura

Il cibo processato crea dipendenza come le sigaretteIl cibo processato crea dipendenza come le sigarette

L’alimentazione della mamma nei primi anni di età dei figli può influenza il rischio di sovrappeso e obesità dei bambini. In particolare, il consumo abituale di alimenti ultraprocessati da parte della mamma può aumentare fino al 26% le probabilità che il bambino sviluppi un peso eccessivo. È quanto emerge da uno studio condotto da ricercatori dell’Harvard Medical School di Boston e pubblicato sul British Medical Journal.

Obesità nei bambini più frequente se la mamma mangia cibo spazzatura

Che l’alimentazione dei genitori sia un indicatore del rischio di obesità dei figli non è una novità, giacché anche i bambini vengono esposti allo stesso modello alimentare in famiglia.

Lo studio, condotto su 19.958 bambini e ragazzi e 14.553 madri, ha fatto però una scoperta sorprendente. Dalla ricerca è infatti emerso che, nel tempo, un bambino o un ragazzo la cui mamma consumava cibo ultraprocessato ha un rischio più alto di ingrassare, rispetto a un coetaneo la cui mamma ha avuto un’alimentazione più sana. Ciò avviene anche a parità di alimentazione e di altri stili di vita che possono influenzare il rischio di obesità, come l’abitudine all’attività fisica. In particolare, i bambini le cui madri hanno maggiori consumi di cibo industriale hanno un rischio del 26% più alto di sovrappeso e obesità.

Le ragioni di questo legame, al momento, non sono chiare. È probabile che non si tratti solo di ragioni comportamentali. I ricercatori ipotizzano “per esempio, un imprinting in utero a lungo termine” o una “modifica epigenetica della suscettibilità della prole all’obesità”.

Lo studio conferma l’importanza della riduzione del consumo di cibi ultraprocessati. Anche se “non dobbiamo trascurare i determinanti sociali che potrebbero impedire alle donne di ridurre l’assunzione di cibo ultraprocessato”, precisano i ricercatori. Per esempio “la mancanza di tempo adeguato per preparare il cibo non trasformato o i costi aggiuntivi di una dieta più sana”, concludono, raccomandando di non ” utilizzare questi dati per stigmatizzare ulteriormente le scelte alimentari” delle donne.

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