Strage fabbrica a Prato: la verità tra economia, politici e grandi firme

Strage fabbrica a Prato: la verità tra economia, politici e grandi firme

3 Dicembre 2013 - di Claudia Montanari

PRATO – Strage nella fabbrica tessile a Prato, sono saliti a cinque i morti accertati, due morti presunti (in attesa di identificazione) e due  ustionati gravi. La colpa? Di tutti: “Cinesi, italiani e politici”. Una strage che si poteva evitare, questo è certo. A poche ore dal terribile dramma parla Matteo Ye Huiming che ad AffariItaliani racconta la sua verità. La colpa è di tutti perché di base c’è un sistema economico sbagliato, poca integrazione dei cinesi e poca tolleranza da parte degli italiani:

“I cinesi dormono nelle fabbriche perché spesso non hanno alternative: pochissimi italiani sono disposti ad affittare una casa ai cinesi” ha spiegato Matteo, dalle cui parole è emersa anche irritazione nei confronti di “un sistema che non ha saputo creare integrazione”.

Le responsabilità? “Sono di tutti: cinesi, italiani e politici”.

Intanto, nella fabbrica della morte si raccolgono i cocci dell’ennesima tragedia umana. Si legge sul Corriere della Sera:

“Uno degli operai rimasti uccisi, si è appreso in serata,  aveva tentato di mettersi in salvo rompendo il vetro di una finestra del capannone ma ha trovato delle sbarre di ferro a bloccare la via di fuga. Il suo corpo è stato trovato con un braccio fuori dalla finestra“.

Matteo Ye Huiming si scaglia anche contro gli organi di stampa:

“Vi ricordate dei cinesi di Prato soltanto quando accadono drammi come questo, mai quando ci sono iniziative culturali d’integrazione”.

Ma vuole anche buttare giù alcuni luoghi comuni. Una buona fetta di stampa secondo il suo parere “è  ignorante” perché “non è vero che c’è schiavitù nelle fabbriche dei cinesi”.  Questo perché non sono strutture blindate dove i lavoratori non possono uscire, i lavoratori cinesi sono consapevoli di quello che fanno e lo decidono autonomamente, senza essere costretti”.

L’accusa contro il sistema economico sbagliato: “E’ il sistema economico che li costringe a lavorare venti ore al giorno. Non hanno alternative, o lavori o perdi il lavoro che ti viene commissionato dalle grandi firme della moda italiana e che finiscono nelle mani di clienti italiani”.

Huiming sa bene come funzionano quelle fabbriche, lui stesso ci ha lavorato dai 12 ai 19 anni: “Era l’azienda dei miei genitori, lavoravo, dormivo e mangiavo nello stesso capannone, mi svegliavo a notte fonda per lavorare, poi andavo a scuola e, mentre i miei compagni facevano ricreazione, io ne approfittavo per studiare”.

Momenti difficili e duri, ma necessari “per uscire dall’estrema povertà da cui proveniva la mia famiglia, condizioni di vita non così impensabili per il laborioso popolo cinese”. E oggi, a distanza di vent’anni da quell’esperienza. Lo rifarei perché mi ha insegnato tantissimo, è un’esperienza che consiglierei anche ai miei figli perché ti insegna molto più della scuola”.