Donne Islam, burqa e niqab vietati in ospedali e uffici: delibera

Isis, parlano le donne: “La nostra vita da spose di terroristi”

23 Novembre 2015 - di Claudia Montanari

RAQQA – Isis, parlano le donne: “La nostra vita da spose di terroristi“. Raqqa, conosciuta ormai da tutti come la capitale del terrore. Ascoltare un telegiornale e non sentir parlare di questa città è ormai impossibile: è lì infatti il quartier generale dell’Isis. Ma quello che forse non tutti sanno è che Raqqa non è stata sempre la capitale del Califfato, la città in cui vige dittatura e terrore e in cui le donne sono costrette ad una vita di semi-schiavitù. Tre ragazze siriane si sono raccontate al New York Times e il Corriere della Sera ha riportato l’intervista. Prima, Raqqa era una città libera. Le donne potevano indossare il bikini, si vestivano sportive, andavano all’Università. Si legge sul Corriere della Sera:

“Dua, Aws e Asma «appartenevano a una generazione di donne siriane che godeva di un’indipendenza assai superiore al passato. Si mischiavano liberamente ai ragazzi, socializzavano e studiavano in una città caratterizzata da diversità religiosa e da costumi piuttosto aperti. Molte donne si vestivano con abiti sportivi, lasciando scoperte le ginocchia e le braccia d’estate, e truccandosi. E anche se alcune abitanti più conservatrici di Raqqa indossavano l’abaya e il velo, un numero crescente frequentava l’università, sposandosi sempre più tardi. La maggior parte delle coppie sceglieva liberamente il partner»”.

Ora, però, non è più così. Dall’arrivo del Califfato la situazione è drasticamente cambiata. Ora le donne sono costrette a portare veli tripli, possono uscire di casa solo se accompagnate da un parente maschio. Chi non rispetta la sharia, va incontro a lapidazioni e decapitazioni:

“Il passato e il presente di Raqqa sono divisi da pochi anni. Dal 2014, quando l’Isis – o come la chiamano gli abitanti «Tanzeem», l’organizzazione – ha preso il controllo della città (e in parte già nel 2013, sotto il dominio dei qaedisti di Al Nusra), la vita è cambiata del tutto. Le cugine Aws e Dua, 25 e 2o anni, l’una studentessa di Letteratura di famiglia borghese e l’altra più povera con il papà contadino, erano accomunate dall’amore per il cinema – la prima Hollywood, l’altra Bollywood – e le passeggiate. La terza ventenne, Asma, studiava Economia, andava in spiaggia in bikini, aveva lasciato un fidanzato che voleva farle portare il velo. Ma nel 2014, pur non aderendo all’ideologia dell’Isis, Dua e Aws hanno sposato due miliziani – la prima costretta dai genitori, la seconda per romanticismo («Aveva visto troppi film con Di Caprio»). Era un modo per tutelare le proprie famiglie e c’erano vantaggi nell’avere un marito «foreign fighter» (salario, appartamento con cucina europea). Si erano perfino innamorate, anche se costrette a usare i contraccettivi perché i loro sposi erano destinati a diventare dei kamikaze, e la prole li avrebbe resi più restii al sacrificio. Tutte e tre si sono unite alla Brigata Al Khansaa, l’unità di polizia femminile, creata per far rispettare le norme della sharia. «Venti frustate per il velo troppo aderente, cinque per il trucco, altre cinque per chi non era docile una volta arrestata». Questa vita è diventata a poco a poco insostenibile. Dua vedeva punire ragazze che una volta erano sue amiche. Tra i compiti di Asma, che guardava di nascosto la tv in casa, c’era quello di incontrare le «migranti» occidentali al confine turco e di accompagnarle a Raqqa: fu lei ad accogliere le tre adolescenti britanniche Kadiza, Shamima e Amira. Rimase sconcertata: «Erano giovani, minute, e così felici di essere arrivate, tutte sorrisi e risate». Lei, costretta ad aderire all’Isis, non capiva come potessero averlo scelto liberamente. «All’inizio – spiega Moaveni – avevo incontrato queste donne siriane per raccogliere notizie sulle occidentali. Ma ho capito subito che erano loro la storia più importante, le loro vite erano state distrutte da Assad. La loro storia non era stata raccontata». Dua e Aws hanno scelto la fuga una volta vedove, costrette a risposarsi senza nemmeno aspettare i tre mesi prescritti dalla sharia. «Eravamo solo distrazioni temporanee per combattenti suicidi. Senza scelta, senza dignità»”.

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