Compaesana di Fabiana Luzzi, bruciata viva a 16 anni: “Io sono fuggita, lei non ce l’ha fatta”

27 Maggio 2013 - di Claudia Montanari

ROMA – Questa è una di quelle storie che ti troncano il respiro in gola. Una di quelle che quando inizi a leggerle, non ce la fai a continuare. Perché gli omicidi sono sempre dei drammi, ma quando nei drammi si consumano altri drammi, e quando nella ferocia si consuma altra ferocia, dare una spiegazione a quello che accade è impossibile.

Questa volta la drammatica vicenda è accaduta a Corigliano Calabro, un paese sulla costa jonica della Calabria. Quella stessa Calabria che offre odori e sapori di terra, di mare, di limoni e di arance, è stata teatro dell’ atroce morte di Fabiana Luzzi. Quel fatidico venerdì 24 Maggio, gli odori degli alberi si sono scontrati con quelli dell’agghiacciante morte di Fabiana. Accoltellata, cosparsa di benzina e poi bruciata viva. E’ morta così, a 16 anni, Fabiana Luzzi. La sua colpa? Aver detto no suo fidanzato che voleva fare sesso con lei. E, anche lui sedicenne, l’ha uccisa. Senza rimorsi, senza rammarico. L’ha bruciata viva.

Un’atrocità consumata nell’atrocità, perchè lo stesso aguzzino ha poi confessato confessioni inconfessabili. Di quelle che non ci credi, di quelle che non vorresti mai sentire. Perché Fabiana Luzzi è stata arsa che era ancora in vita. Ferita da sette fendenti di coltello e lasciata per un’ora tra i rovi a dissanguarsi, quando ha visto il fidanzato D.M. tornare ha lottato. Fabiana, 16 anni nemmeno, ha visto la tanica di benzina. Ha urlato “bastardo”. Ha cercato di divincolarsi e fuggire, quando ha capito che lui le avrebbe dato fuoco. Si è alzata e gli si è gettata addosso, voleva versare in terra la benzina. Ma il suo corpo, indebolito dalle coltellate, non ce l’ha fatta. E’ ricaduta in terra e lui ha acceso il rogo che l’ha uccisa.

Il movente di questa annesima barbaria consumata questa volta da due ragazzini che, a quell’età, dovrebbero pensare a tutt’altro, è come sempre la gelosia. E forse questa sarà l’ennesima storia che finirà nell’oblio, di quelle che si leggono per qualche giorno e poi finiscono nella cronaca nera dimenticata.

Come la storia di Ivan Forte, che a causa della gelosia strangolò la compagna Tiziana Olivieri. Per coprire l’omicidio, avvenuto nella loro casa a Fontana di Rubiera il 19 Aprile 2012, Ivan inscenò un incendio e portò in salvo solo la figlia, sostenendo che la compagna Tiziana non aveva fatto in tempo a salvarsi dal rogo. Forte, reo confesso, sarà processato il prossimo 13 giugno a Reggio Emilia per omicidio volontario. Ma a maggio, dopo un solo anno in prigione, è stato scarcerato per decorrenza dei termini di custodia.

Omicida, reo confesso, e già libero. In attesa del processo con rito abbreviato.

Così sarà dimenticata Fabiana? Così ci si scorderà del dolore e della paura che deve aver passato quella ragazzina di 16 anni, mentre assisteva impotente alla sua morte? Mentre aveva il terrore negli occhi e guardava la tanica di benzina avanzare?

“Non ce l’ha fatta ad andar via”, racconta  Francesca Chaouqui in una lettera aperta, indirizzata al “Corriere della Sera”. “Sono nata nella terra in cui è stata uccisa Fabiana, io sono andata via, lei non c’è riuscita” scrive la ragazza, 30 anni, direttore delle relazioni esterne di una multinazionale.

E racconta la sua terra, Francesca. Spiega le colpa che ha una “femmina” di nascere “femmina” in Calabria. E lo fa molto bene, riuscendo in poche colonne a raccontare i profumi e gli odori di quei luoghi, da cui le donne cercano disperatamente di fuggire: Dalle nostre parti si fa voto a San Francesco di Paola per avere un maschio, in Calabria tutte le donne vogliono un figlio maschio, ancora oggi. Se nasci femmina la tua stessa venuta al mondo disattende la volontà di chi dovrebbe amarti incondizionatamente ma nonostante questo la Calabria è una terra matriarcale, sono le madri a indirizzare le famiglie, a aiutare i figli nelle scelte e anzi spesso a decidere per loro”.

E ancora: “Fabiana era di Corigliano e per capire la sua vita e la sua morte atroce immaginatevi un paese arroccato di case costruite la maggior parte nel dopoguerra e mai ristrutturate, sentite l’odore dei camini accesi l’inverno, l’unico bar nella strada principale teatro della vita sociale dei pochi rimasti, severo e insindacabile tribunale di chi vale e di chi non vale, di chi conta e chi no.

La maggior parte degli avventori sono anziani. Si perché quasi nessun giovane rimane in Calabria, una terra splendida ma con troppo poco da offrire e quasi niente da costruire. Sono sicura che anche Fabiana Luzzi sognava di andar via.

Partiamo tutte a bordo di pullman stanchi verso la capitale oppure Bologna, alcune volte Milano. Arriviamo qui in queste città dove le mamme e le figlie si baciano, si raccontano tutto, dove se fai l’amore la prima persona a cui lo dici è proprio tua mamma sicura che anche lei alla tua età ha fatto lo stesso. In Calabria se a 16 anni fai l’amore e tua madre, o peggio ancora tuo padre, lo scoprono sei certa di aver dato la peggiore delusione che potevi ai tuoi genitori.

Fabiana è cresciuta come tutte noi, sentendosi dire cittu ca tu si filmmina, non su così pi tia, fai silenzio, sei una donna non sono cose per te. Davide sarà cresciuto aspettando il suo battesimo del fuoco, la prima volta, quella che ti fa entrare al bar spavaldo a dire mo sugnu n’uomminu, ora sono un uomo, come se bastasse questo per essere cresciuto e aver trovato un ruolo in quella società.

Il rapporto fra uomo e donna in Calabria si forma presto, un binomio di due mondi paralleli che non si trovano mai, molti crescono vedendo padri e nonni dare qualche sganassone alle compagne, vedono loro reagire senza reagire, accettare quei comportamenti come connaturati agli uomini per retaggio culturale e sovrastruttura sociale.

Si incassa, si va avanti, ca non è c’ama fa ridi i genti, non dobbiamo far sogghignare la gente, un’espressione tipica per dire che i panni sporchi si lavano in famiglia. I ragazzi guardano, imparano che la violenza è virilità, che fa parte del gioco delle coppie, diventa spesso parte di loro. Alcuni la metabolizzano, altri no. Le donne in Calabria, sono poche quelle che restano, poche quelle che amano liberamente, poche quelle che hanno compagni che le considerano loro pari in ogni cosa.

Così andiamo via, sono le nostre madri a volerlo, i nostri padri a lavorare per poterci permettere di farlo. Diventiamo magistrati, insegnanti, avvocati, siamo pronte a parlare di tutto, con una mentalità aperta che non ha nulla a che vedere con quella con cui siamo cresciute. Dentro di noi però portiamo il peso degli insegnamenti che il piacere, la libertà sono cose da maschi, ci ribelliamo ma difficilmente ce ne liberiamo del tutto.

Noi calabresi oggi siamo tutte Fabiana, chi è rimasto e chi come me è andata via, ma un pezzo del mio cuore è ancora lì, nonostante tutto”

E allora, che non sia dimenticata l’atroce storia di Fabiana. Che non sia dimenticata la lettera di Francesca, perché Fabiana, Francesca, siamo tutte noi. Siamo tutte noi donne che la mattina ci alziamo e possiamo scegliere cosa indossare e dove andare, chi frequentare e chi no.