Tarocchi online: l'ira delle case di moda contro i siti delle imitazioni

Tarocchi online: l’ira delle case di moda contro i siti delle imitazioni

19 Maggio 2015 - di Claudia Montanari

ROMA – Tarocchi online. Altro che bancarelle abusive, ormai la nuova frontiera è il falso via internet. Alibaba, colosso cinese dell’e-commerce, è finito sotto il ciclone delle griffe che accusano il sito di favorire l’acquisto dei tarocchi. Dall’abbigliamento agli accessori, secondo alcune grandi case di moda come Gucci e Yves Saint Laurent, Alibaba sarebbe diventato uno dei più grandi magazzini di imitazioni al mondo. Ettore Livini spiega su Repubblica:

“I suoi siti — è scritto nero su bianco nella prima denuncia presentata a un giudice Usa dalla Kering, casa madre dei due marchi — «sono un ecosistema di prodotti contraffatti ». Cerchi una borsa con la doppia G, un beauty di Bottega Veneta o un capo griffato Ysl e accanto all’originale — secondo le prove degli 007 assunti dalle griffe — appaiono decine di copie made in China . Identiche in tutto e per tutto salvo che per il prezzo”

Secondo quanto si legge su Repubblica, il business non è certo limitato a pochi euro:

“A giugno 2014, quando gli “acchiappafalsi” delle due maison hanno iniziato a passare al setaccio byte per byte le offerte dell’azienda di Pechino — c’erano quasi mille negozi telematici con in vetrina 1.400 imitazioni di oggetti Gucci. In un solo mese di monitoraggio, gli investigatori hitech hanno visto passare di mano 37mila borse e 26mila scarpe clonati dai modelli della gloriosa società toscana, roba che in negozio vale quasi un centinaio di milioni di dollari. E Alibaba, sostengono, deve pagare i danni. La posta in palio in questa guerra tra vero e falso, viste le cifre in ballo, è altissima. L’Amazon cinese campa di commercio online, ha in catalogo oltre 800 milioni di prodotti e vale a Wall Street 170 miliardi di dollari, più o meno il pil della Grecia. La credibilità, in un mercato di questo tipo, è tutto. E gli uomini di Jack Ma, non a caso, difendono a spada tratta la loro totale buona fede. Solo nel 2014 — garantiscono — sono stati spesi 150 milioni per scoprire le offerte irregolari e 100 milioni di articoli sarebbero stati “espulsi” perché illegali. «Ci spiace che Kering abbia scelto la strada di una dispendiosa causa invece di lavorare con noi come succede con gli altri partner per risolvere il problema», hanno commentato. Yves Sain Laurent & C. però tirano dritto. «Le prove che abbiamo raccolto raccontano un’altra storia», dicono: Alibaba, è il succo, non poteva non sapere. Anzi, avrebbe addirittura lavorato sui suoi sistemi di ricerca per pilotare verso il paradiso delle “copie” i suoi visitatori. E la pistola fumante sarebbero i magheggi informatici fotografati in modo inequivocabile nelle centinaia di pagine della denuncia Usa”

Secondo le case di moda, insomma, il comportamento del sito cinese sarebbe “doloso” in quanto avrebbe rivisitato degli algoritmi per privilegiare il mondo delle copie:

“Digitalizzando Gucci nel campo riservato al prodotto da trovare, ad esempio, il cervellone del sito suggeriva di reindirizzarsi su “Cucci” o “Guchi”, pagine dove apparivano decine di abbordabilissimi cloni. Non solo. Volendo insistere sul nome esatto, il risultato (per i legali di Kering) era lo stesso: alla parola Gucci, infatti, sarebbe stato associato di nascosto nel sistema Html dai programmatori il termine “Synthetic leather”, con il risultato di mostrare non solo i prodotti veri ma anche le loro imitazioni. A quel punto c’era solo l’imbarazzo della scelta. Accanto alla busta da toilette Beauty Soho (380 dollari a listino Gucci) spuntava la copia sintetica e falsa della Yiwu Bothwinter. Costo 11 dollari per un capo, 3,5 se ne ordinano 10mila. La classica borsa da donna con la doppia G da 795 dollari campeggiava a fianco di un tarocco della Hangzhou Yanbei alla modica cifra compresa tra i 2 e i 5 dollari a seconda della quantità richiesta. Quest’ultima azienda era un “golden supplier” di Alibaba, sottolinea la denuncia. Il colosso del web avrebbe dunque dovuto visitarla e certificarne i prodotti. Ergo, non poteva non sapere dei falsi che metteva in vetrina”.